Il Sessantotto: origini, sviluppi e conseguenze

Il Sessantotto: origini, sviluppi e conseguenze

  1. Liceo classico Parini, Milano, febbraio 1966
    Nel prestigioso istituto milanese circolava da anni un periodico autogestito dagli studenti, il cui nome – “La zanzara” – è rimasto celebre. Il giornale studentesco, in termini seri e civili, aveva pubblicato un’inchiesta interna che aveva per oggetto, tra l’altro, ciò che le studentesse pensavano a proposito del sesso. Il titolo era “Che cosa pensano le ragazze d’oggi”. Trascorso oltre mezzo secolo, oggi faticheremmo non poco a vedere in queste interviste alcunché di trasgressivo. Ma allora, per molti, la parola “sesso” pronunciata o – peggio – scritta in contesti pubblici bastava a suscitare scandalo e ira. Nel numero precedente il giornale aveva osato sollevare il problema della religione, attirandosi non poche critiche. Nel nuovo numero, alcune delle ragazze intervistate riguardo al sesso avevano, tra l’altro, affermato che in campo sessuale la religione genera complessi di colpa. Altre si esprimevano a favore dei mezzi anticoncezionali, e perfino dei rapporti prematrimoniali. Due anni prima, nel 1964, il pubblico italiano aveva decretato il successo della canzone sanremese Non ho l’età: un vero e proprio inno alla morale tradizionale.
    Contro l’inchiesta della “Zanzara” si levò l’indignazione di alcuni giovani, che si qualificarono come “pariniani cattolici” e che facevano capo al gruppo giovanile denominato Gioventù studentesca, conosciuto come “giesse”. L’animatore del gruppo era il sacerdote lombardo Luigi Giussani, in seguito assai noto come fondatore e animatore di Comunione e liberazione. Al movimento aderirà ben presto Roberto Formigoni, per vari anni presidente della Giunta della Regione Lombardia. Il volantino diffuso da “giesse” fece esplodere il caso. Se ne interessò anche un quotidiano, il “Corriere lombardo”. Un magistrato, Pasquale Carcasio, dispose un’inchiesta, prontamente affidata alla questura. Tre giovani redattori, due studenti e una studentessa, furono sottoposti a umilianti interrogatori. In applicazione di una vecchia norma del periodo fascista per l’occasione rispolverata, i maschi si dovettero denudare, affinché si potesse verificare l’eventuale «presenza di tare fisiche e psicologiche»; a uno di essi fu chiesto se frequentasse prostitute. La ragazza rifiutò di obbedire all’ordine di spogliarsi. Successivamente, vennero processati per direttissima i tre redattori del giornale, nonché il preside del liceo, Daniele Mattalia, e il proprietario della tipografia. L’accusa era di “pubblicazione oscena”. Furono assolti da un collegio presieduto dal giudice Luigi Bianchi d’Espinosa, un uomo di vedute illuminate, divenuto in seguito assai noto. Ma l’opinione pubblica si era divisa in due fazioni contrapposte. Due Italie si erano scontrate: i partigiani del vecchio ordine – gerarchico, patriarcale, sessuofobico e punitivo – e i fautori di nuovo assetto, libertario per quanto riguardava le scelte valoriali.
    Per vari aspetti l’episodio del Parini è istruttivo. Non solo è un Sessantotto – mancavano ormai solo due anni all’anno della grande esplosione – progressista e mite, ossia ragionevole e non violento. Ma i giovani liceali riuscirono ad aggregare attorno a loro un fronte di solidarietà alternativo rispetto al fronte cattolico-conservatore, con il quale solidarizzò soltanto, oltre alla Democrazia Cristiana, Il Movimento Sociale. Tra i politici che
    si mobilitarono a favore degli studenti figurava Pietro Nenni; ma anche i cattolici progressisti erano dalla parte dei liceali. La via seguita negli anni successivi dai movimenti giovanili e dai partiti fu molto differente. Una buona dose di idealismo era la nota dominante del movimento giovanile ai suoi albori. È appena il caso di ricordare il soccorso prestato, nel novembre di quello stesso 1966, alla Firenze alluvionata dai giovani che dalla stampa furono definiti gli “angeli del fango”. A quell’epoca sarebbe forse stato possibile aggregare un’ampia coalizione sociale e politica in vista di un progetto di riforma e di trasformazione globale della società. Poi le cose andarono diversamente.
  1. I presupposti culturali
    La protesta giovanile era già in atto da vari anni, soprattutto nei paesi economicamente più avanzati. Ma non fu in alcun modo un “fulmine a ciel sereno”. La tensione si stava accumulando da oltre un decennio. È dunque opportuno procedere un poco a ritroso e ricostruire per brevi cenni il quadro storico caratteristico del secondo Novecento. In generale, i giovani avvertivano una sorta di “tradimento generazionale” compiuto a loro danno dai padri. Questi ultimi, per i giovani degli anni Cinquanta e Sessanta, appartenevano alla generazione che aveva combattuto la Seconda guerra mondiale. Il primo Novecento – per chi non lo ricordi – aveva conosciuto, tra il 1914 e il 1945, due conflitti mondiali devastanti.
    Poi c’era stata la promessa di una pace duratura. Quando, il 2 settembre 1945, i giapponesi firmarono la resa, a bordo della corazzata Missouri, nella rada di Tokyo, il comandante supremo alleato, Douglas MacArthur, aveva auspicato che fosse messo al bando l’odio tra i popoli e che tutti collaborassero per una più alta e condivisa dignità umana. Una volta sconfitte in via definitiva le forze del male, la pace e la giustizia avrebbero trionfato. Ben presto le cose andarono in tutt’altra maniera. Fin dall’agosto 1945, era in atto la Guerra fredda (questa espressione, già usata dallo scrittore George Orwell, entrò nell’uso del linguaggio giornalistico dal 1947). Il confronto armato – anche se non apertamente conflittuale – tra i due blocchi segnò, di fatto, un tradimento su vasta scala degli ideali democratici. Dal 1950 al 1953 si combatté la Guerra di Corea, che costò circa 2.000.000 di morti tra i civili e numerose perdite tra le forze armate. Pochi anni dopo, gli USA furono impegnati, dal 1955, in Vietnam. Il conflitto si concluse nel 1975, con oltre 2.000.000 di morti tra i civili, senza contare quelli tra i militari. Un altro aspetto inquietante era l’appoggio regolarmente assicurato dagli USA alle dittature anticomuniste nei paesi in via di sviluppo, in particolare nell’America latina.
    L’episodio più drammatico fu la Crisi di Cuba, giunta al suo culmine nel 1962. In questa occasione il groviglio dei problemi irrisolti venne alla ribalta. La crisi fu concretamente percepita e vissuta da larghissimi strati della popolazione di tutti i paesi grazie alla potenza dei mezzi di comunicazione di massa. Cuba è la più grande isola dei Caraibi. La sua superficie ammonta a oltre un terzo di quella italiana. Essa dista solo 150 chilometri dalle coste meridionali degli USA, più precisamente dalle isole Key West, in Florida. L’isola è un grande produttore di zucchero; era divenuta indipendente dalla Spagna nel 1902, ma restò saldamente legata agli USA. Il paese era meta di un turismo “di evasione” per ricchi statunitensi. Il leader dell’opposizione, Fidel Castro, che già aveva intrapreso un’azione insurrezionale, tornò a Cuba nel 1956 ed entrò a L’Avana, la capitale, nel 1959, a capo di un governo democratico radicale, ma, almeno in prima battuta, non marxista.
    Nel novembre 1960 John F. Kennedy fu eletto presidente degli Stati uniti. Nell’aprile 1961 un gruppo di esuli cubani aveva tentato lo sbarco a Cuba, nella Baia dei porci. Nell’agosto 1962 i servizi segreti USA comunicarono al presidente Kennedy che i sovietici stavano installando nell’isola missili a media gittata (2000-3000 chilometri). Il 22 ottobre 1962 scoppiò la crisi: Kennedy annunciò il blocco navale nei confronti delle navi sovietiche. Fu probabilmente questo il momento di maggior tensione nel corso dell’intera guerra fredda.
    Nelle giornate di Cuba, l’olocausto nucleare sembrò prossimo a compiersi. Il rischio di una terza guerra mondiale si presentava come una sorta di impegno non mantenuto da parte delle generazioni adulte nei confronti dei giovani. La crisi dei missili di Cuba fu, come si è detto, vissuta a livello planetario: un vero e proprio Erlebnis collettivo reso possibile dai mezzi di comunicazione. Ma essa non faceva che mettere in risalto una realtà contraddittoria molto più generalizzata: l’elemento militare, sebbene non apparisse più in primo piano e fosse marginalizzato dalla cultura e dalla coscienza collettiva, era ancora determinante all’interno delle democrazie. Questa contraddizione alimentava il sentimento di estraneità tra i figli e i rispettivi padri. Questi ultimi, non solo avevano combattuto la Seconda guerra mondiale, ma rischiavano di scatenare la terza, e già da qualche anno molti giovani degli USA dovevano andare a combattere in varie aree periferiche
    I segni del conflitto generazionale erano già emersi, circa dieci anni prima della crisi di Cuba, negli scrittori della cosiddetta Beat generation: Jack Kerouac, Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti. Grazie al cinema, lo stile di vita caratteristico della beat generation fu reso celebre dall’attore James Dean. Il termine “beat” era da intendersi, probabilmente, nell’accezione di “abbattuto”, “suonato”, “sconfitto” (ma, volendo, anche nel senso musicale di “battito”) e ben caratterizzava coloro che non si integravano nella società borghese. Di lì a poco, fu coniato l’aggettivo dispregiativo beatnik, sul modello di Sputnik, il satellite messo in orbita dall’URSS nel 1957. I beat esprimevano la loro radicale rivolta sul piano esistenziale e individuale, con il rifiuto delle convenzioni imposte dalla società, e anche dei connessi vantaggi. Per i beat, il cosiddetto “sogno americano” nascondeva una realtà alienante, fatta di oppressione economica e militare, dominata dall’incombente rischio della guerra totale. Erano diffusi tra questi ribelli vari comportamenti trasgressivi, compreso l’uso generoso di droghe, ma anche l’interesse per le religioni orientali, in particolare il buddhismo. I testi di questi autori cominciarono a circolare anche in Italia. Di Kerouac divenne assai noto il lungo romanzo On the road, ultimato nel 1951 e pubblicato nel 1957. Nel 1959, uscì la traduzione italiana, per l’editore Arnoldo Mondadori di Milano. I protagonisti sono senza dimora fissa e in continuo peregrinare senza meta, da Est a Ovest e da Nord a Sud per gli States e tutta l’America settentrionale. Si può facilmente notare come siano pressoché del tutto assenti i padri e le madri dei vari personaggi del romanzo. Per il protagonista, il familiare di riferimento è una zia.
    La dimensione esistenziale e concreta è la cifra più originale di On the road e del sentimento generazionale che il romanzo esprime. Sono troncati i legami con il passato. Vengono rifiutati in maniera drastica i simboli del mondo adulto: «Tutte le chiavi mi caddero dalle tasche; non le trovai mai più.» (J. Kerouac, Sulla strada, A. Mondadori, Milano 1959, p. 80). A un certo punto, si afferma che tutti i ponti sono ormai rotti (J. Kerouac 1959, p. 235). Ma anche il futuro non ha una meta predefinita né un obiettivo ideale da conseguire. Il romanzo, almeno nelle sue movenze iniziali, sembra voler riproporre il mito americano del West come terra promessa, ma poi ogni approdo risulta insoddisfacente, con il conseguente bisogno di tornare indietro. Il futuro non ha forma definita e, verso la conclusione, risulta finalmente ben chiaro che il viaggiare è il non fermarsi mai: «Per andar dove, amico?» «Non lo so, ma dobbiamo andare.» (Kerouac 1959, p. 300).
    Il senso storico del tempo è andato perduto. Rimane un eterno presente, il quale, tuttavia, non è necessariamente effimero, ma è aperto alla dimensione dell’eterno, anche in prospettiva religiosa. In varie occasioni, si fa strada l’idea dell’“eterno ritorno”, che non è un astratto concetto filosofico, ma una concreta esperienza vissuta. La nascita e la morte appaiono talora congiungersi in un percorso circolare. Il protagonista avverte il ricordo di una felicità perduta, sperimentata nel ventre materno, e di nuovo possibile solo nella morte. (J. Kerouac 1969, .p. 170). L’eternità sperimentata nel presente – senza passato e senza futuro – apre la via all’estasi mistica e a una nuova esperienza del divino. Nella parte terza, Kerouac trova le parole giuste per raccontare questa esperienza: «dietro di lui c’era di tutto, e davanti gli stava l’aspra ed estatica gioia del puro essere.» (J. Kerouac 1959 p. 250). Senza dubbio, il ricorso senza alcuna limitazione ad alcool e droghe favoriva queste visioni estatiche; ma non può essere negata la loro valenza propriamente culturale. D’altra parte, non deve sfuggire ciò che manca nell’universo di On the road, ossia l’uso della violenza e la militanza politica. È precisamente questa mitezza ciò che distingue Kerouac, e con lui gran parte della beat generation degli anni Cinquanta, dai movimenti giovanili del decennio successivo.
    Per quanto riguarda Allen Ginsberg, di questi divenne popolare la raccolta di poesie Jukebox all’idrogeno, in particolare Urlo, letto per la prima volta nel 1955. Di Urlo è ben noto l’incipit, che qui riportiamo, rispettando nei dettagli le scelte tipografiche dell’edizione Mondadori (Allen Ginsberg, Jukebox all’idrogeno, trad. it. a cura della scrittrice Fernanda Pivano, Mondadori, Milano 1965.
    Ho visto le menti migliori della mia generazione
    distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche,
    trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di
    droga rabbiosa, hipsters dal capo d’angelo brucianti per l’antico con-
    tatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte,
    che in miseria e stracci e occhi infossati stavano su imbottiti a fumare nel buio soprannaturale di soffitte a acqua fredda galleggiando sulle cime
    delle città contemplando jazz.
    Era questo il sentire comune di molti giovani appartenenti alle nuove generazioni. La cultura degli Stati uniti – in Italia trattata con sufficienza o disprezzo – era stata all’avanguardia nel dare ad essa forma letteraria, o anche musicale. In Europa la cultura dominante sul fronte della sinistra era ancora il marxismo. Ma la tradizionale dottrina marxista o marxista-leninista sembrava ormai non aver più nulla da dire alle nuove generazioni, e restava solo il vangelo ufficiale degli apparati politici di sinistra e di larghi settori del mondo universitario. La sostanza della novità era la protesta e la spinta rivoluzionaria non erano più espresse dalla classe operaia, bensì in tutti coloro che si collocavano ai margini delle società più evolute. L’espressione “ai margini” deve essere intesa, non solo in senso sociologico, ma anche in senso geografico (o meglio, “geopolitico”). In questo secondo significato, essa sta a indicare le aree sottosviluppate, marginali e sfruttate del pianeta.
  2. Sviluppi e ribaltamento del marxismo
    In questo quadro, alcune vedute sostanzialmente nuove prendevano forma anche all’interno del marxismo. In Europa e negli USA gli autori della Scuola di Francoforte, in particolare Max Horkheimer, Theodor Wiesengrund Adorno e Herbert Marcuse, avevano da tempo sviluppato temi quali l’opposizione al consumismo e la denuncia del carattere oppressivo del capitalismo. L’analisi intrapresa da Horkheimer e Adorno, soprattutto nell’opera La dialettica dell’illuminismo, apparsa nel 1947, è di notevole profondità filosofica. Per i due autori l’illuminismo, nel suo significato essenziale, è la riduzione della realtà al numero e al calcolabile, messa in opera dalla scienza e dalla tecnologia. L’approccio illuministico alla realtà si basa, infatti, sull’impiego di moduli fissi, che trascelgono nella realtà quanto dovrà essere rilevante per il calcolo e per i meccanismi produttivi. Ne segue la distruzione delle qualità e di ogni fattore che non si possa ridurre alla dimensione scientifica. L’intera realtà si presenta, in tal modo, come l’oggetto del dominio.
    Il prodotto più rilevante di questa tendenza è l’industria culturale. Quest’ultima estende il dominio al mondo umano nella sua interezza operando mediante la diffusione di cliché e mediante la replica illimitata del sempre uguale. Tende, così, a scomparire l’arte, giacché essa accetta e riconosce al suo interno la negatività e la morte; in sua vece trionfa lo stile, che evita i problemi e vuole essere gradevole. Nel sistema che in tal modo si afferma domina l’uniformità e scompare ogni resistenza individuale al conformismo imposto dal sistema produttivo. L’individuo si mimetizza nel gruppo. La maggioranza non fa che accogliere l’istanza dell’uniformità insita nel sistema e nel dominio. La democrazia è, dunque, illusoria; in realtà essa è burotecnocrazia. Queste idee mettevano in dubbio la legittimità morale dei sistemi politici occidentali, che venivano assimilati ai regimi dittatoriali. Comunque fosse, esse incontrarono ampio consenso: per esempio, nel 1968 lo scrittore italiano Pier Paolo Pasolini si ritirò dalla competizione del Premio Strega per protestare contro l’“industria culturale”.
    Anche Herbert Marcuse fu esponente della Scuola di Francoforte ed era l’autore di opere conosciute anche oltre le cerchie specialistiche. In Ragione e rivoluzione, Eros e civiltà e L’uomo a una dimensione, egli metteva in risalto, tra gli anni Quaranta e Sessanta, il carattere “negativo” della dialettica marxiana. In Italia Einaudi pubblicò L’uomo a una dimensione, nel 1967. Compito precipuo del pensiero dialettico era la negazione dell’ordine esistente. La moderna società capitalistica è soggetta, secondo Marcuse, al dominio tecnologico. Trionfa in essa una pressoché totale mercificazione, che riduce tutta la realtà umana a merce di scambio. In questo dominio pervasivo del sistema capitalistico anche la tolleranza, professata dalle democrazie, è una “tolleranza repressiva”, che maschera e nasconde l’effettiva condizione di schiavitù.
    Ma nella teorizzazione di Marcuse diventava decisivo l’apporto di Freud. Non è sufficiente, infatti, la liberazione del lavoro. Secondo Marcuse, occorre attuare anche la liberazione dell’eros. In realtà Freud, a giudizio di Marcuse, aveva commesso un grave errore allorché aveva contrapposto al principio di piacere il principio di realtà. L’incompatibilità tra queste due istanze sorge solo all’interno della società capitalistica. Per Marcuse, il gran rifiuto nei confronti della società è in grado di liberare sia il lavoro sia l’eros. Ne viene profondamente trasformata la concezione della sessualità, che non è più procreativa: tutto il corpo deve essere erotizzato. In questo orizzonte, il marxismo doveva condurre a una generale liberazione dell’uomo, considerato in una prospettiva biologica quale soggetto di bisogni. È pressoché superfluo osservare che, secondo la visione di Marcuse, l’uomo non era, e non era mai stato, libero.
    Nel sistema neocapitalistico, tuttavia, la classe operaia è irrimediabilmente integrata all’interno del sistema stesso. Ma di fatto, i partiti marxisti occidentali erano ancora fermi al tradizionale primato della classe operaia quale soggetto rivoluzionario per definizione. Occorre, dunque, ricercare un nuovo soggetto rivoluzionario. E non c’è dubbio che esso debba essere ritrovato nei cosiddetti marginali, ossia in coloro che si trovano “ai margini” o “alla periferia” del sistema e non sono perfettamente integrati in esso e nei meccanismi che producono il consenso. Ma di certo, il rifiuto del capitalismo tecnologico richiede anche una trasformazione del sistema produttivo. Per questo occorre, secondo Marcuse, fare affidamento sulle nuove tecnologie alternative e portare alla ribalta le tematiche ecologiche. Il che puntualmente avvenne nei decenni successivi alla pubblicazione dei testi di Marcuse.
    Non furono solo questi gli elementi di novità all’interno della cultura marxista. Per esempio, le avanguardie artistiche diedero vita, sul finire degli anni Cinquanta, a un movimento, il Situazionismo, affine per certi aspetti al Surrealismo. Il principale teorico del Situazionismo fu il francese Guy Debord, Questi sosteneva che la società moderna è dominata dallo spettacolo, a cui si riconduce anche la politica. Occorreva, dunque, creare e improvvisare nuove condizioni ambientali, ossia scenari urbani inediti e trasgressivi in grado di ribaltare i falsi miti su cui si regge la società “spettacolizzata”. Il Situazionismo interessava soprattutto gli ambienti artistici, ma esso giocò una parte importante nel disegnare le scenografie urbane del movimento di contestazione.
    Se Marcuse fu il principale teorico della protesta giovanile, il medico argentino Ernesto “Che” Guevara, ne fu l’eroe leggendario. Di fatto, Guevara, marxista di matrice cattolica, capovolse la dottrina di Marx. Questo capovolgimento si era in buona parte già compiuto nella lontana Cina. Qui Mao Zedong aveva avanzato, già nel 1927, l’idea – invero nuova all’interno del marxismo – secondo cui la rivoluzione è uno scontro tra città e campagna. Ben oltre quanto aveva teorizzato Lenin, i contadini sono ora il vero soggetto rivoluzionario, che cessa di essere il proletariato urbano.
    Negli anni Sessanta, il vangelo maoista fu radicalizzato dal giovane medico argentino (nato nel 1928 e ucciso nel 1967). Guevara, nella sua elaborazione teorica, si avvicinò al giovane Marx e al suo umanismo. Per via di questa impostazione, egli non era troppo incline a vedere il cammino verso il socialismo come un processo automatico deterministico, insito nella struttura economica, così come avrebbe voluto la dottrina sviluppata nel Capitale. Inoltre, sulle orme di Mao, Guevara sosteneva il ruolo decisivo delle zone rurali e portava alle estreme conseguenze la contrapposizione tra campagna e città. Ma queste, ora, diventavano, rispettivamente, l’emisfero meridionale e l’emisfero settentrionale del globo terrestre. Il marxismo, da sociologico quale era stato in origine, era diventato geopolitico.
    Secondo Guevara, in questa guerra civile planetaria, occorreva generalizzare il modello Vietnam; un suo celebre slogan era «due, tre, molti Vietnam». Ma senza dubbio, al centro del suo pensiero, si collocava il rovesciamento soggettivo delle condizioni strutturali, che può aver luogo per iniziativa del soggetto collettivo rivoluzionario e della sua volontà, anche quando le condizioni oggettive sono tutt’altro che mature, o anche (ben al di là di quanto aveva teorizzato Lenin) quando il proletariato industriale di fatto è ancora inesistente. Il rivoluzionario argentino non esitava a porre i «fatti di coscienza» a fondamento della «morale rivoluzionaria» marxista. Si può vedere, a questa proposito, l’intervista rilasciata a Jean Daniel, dell’“Express”, nel luglio 1963 (tradotta in italiano con il titolo La condanna dell’imperialismo, in Opere, vol. II. Feltrinelli, Milano 1968, p. 534).
    Non era solo un’innocua teoria filosofica. L’impatto esistenziale esercitato da questa visione su chi la condivideva era sconvolgente, e poteva indurre qualcuno a comportamenti violenti. Guevara stesso, nel suo testamento, scriveva «Amo l’odio, bisogna creare l’odio e l’intolleranza tra gli uomini, perché questo rende gli uomini freddi, selettivi, e li trasforma in una perfetta macchina per uccidere.». A confronto con questa celebrazione della violenza, le posizioni di Marx, nel loro ottimismo, mostrano – se così possiamo dire – tutto il loro “candore” tipicamente ottocentesco. D’altra parte, è evidente come l’opposizione al capitalismo da parte di Guevara assumesse un carattere – conviene insistere – spiccatamente geopolitico (in chiave planetaria), prima ancora che sociale o ideologico. La periferia del pianeta si doveva ribellare allo sfruttamento da parte dei paesi ricchi e privilegiati. Era, dunque, un secondo o un terzo fronte che veniva aperto in questo assedio della roccaforte USA, oltre al blocco sovietico e al comunismo cinese. Il fochismo propugnato dal Che consisteva nel tenere accesi dei “fuochi” rivoluzionari isolati, da cui, al momento opportuno, si sarebbe potuto sviluppare l’incendio.
    Il Che divenne, soprattutto dopo la sua morte, un mito della contestazione giovanile, anche grazie a un celebre poster stampato dall’editore Feltrinelli. Quest’ultimo, secondo alcune fonti, coltivò il proposito, nel 1968, di accendere un focolaio rivoluzionario in Sardegna. Feltrinelli aveva anche pubblicato, nel 1967, il manuale di guerriglia La guerra di guerriglia. Le Edizioni Avanti!, vicine alla sinistra del Partito Socialista, avevano già dato alle stampe, nel 1961, La guerra per bande, riproposto nel 1967 negli Oscar Mondadori.
  3. La svolta nella Chiesa cattolica
    Ma nei primi anni Sessanta le novità si manifestavano proprio là dove forse nessuno se le sarebbe aspettate. Sul finire degli anni Cinquanta, era accaduto un fatto inaspettato. Il 28 ottobre 1958 era stato eletto papa Angelo Giuseppe Roncalli. Secondo alcune ricostruzioni postume il conclave successivo alla morte di Pio XII fu assai travagliato. È probabile che l’ala maggioritaria del Collegio cardinalizio puntasse all’elezione di un pontefice conservatore, in linea con il precedente pontificato di Pio XII. Non è neppure da escludere che una candidatura di segno apertamente conservatore (quale, secondo i più, era quella del cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova) non avesse suscitato i necessari consensi a causa delle gravi tensioni che allora turbavano i paesi dell’Europa orientale. Per molti cardinali era consigliabile un atteggiamento di prudenza. È da ricordare che, nel 1956, la Chiesa cattolica aveva avuto un ruolo di primo piano nel tentativo di ribellione contro l’Unione Sovietica compiuto dall’Ungheria. Di fronte a tali perplessità la scelta cadde su un papa che facilmente poteva apparire, anche per ragioni di età, una figura di transizione. Ma questa valutazione si mostrò del tutto erronea.
    Presto, infatti, si capì che, con il nuovo eletto, Giovanni XXIII, la Chiesa era disposta ad accettare la modernizzazione e cessava di porsi come intransigente paladina dell’ordine tradizionale in ogni settore della cultura e della società. La grande occasione per un rinnovamento profondo del Cattolicesimo su scala planetaria – non più quasi esclusivamente europea o italiana – fu il Concilio Vaticano II, annunciato il 25 gennaio 1959 da Giovanni XXIII, poi aperto dal medesimo il giorno 11 ottobre 1962 e portato a compimento nel 1965 dal suo successore, Paolo VI. In occasione dell’apertura del Concilio, Giovanni XXIII pronunciò il celebre discorso Gaudet Mater Ecclesia, in cui rappresentò l’esigenza di adeguare la dottrina alle esigenze dei tempi: «[…] occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione.» In altre parole, la dottrina non cambia mai – altrimenti si sarebbe fatto strada il sospetto di “modernismo” (l’eresia stroncata all’inizio del secolo) – ma mutano profondamente i modi di annunciarla.
    La svolta impressa da Giovanni XXIII fu accompagnata da un’importante riflessione di carattere dottrinale. Già nel 1961 la sua enciclica Mater et magistra asseriva che il lavoro non deve essere trattato «alla stregua di una merce»). In tali espressioni colpisce il ricorso esplicito ad una terminologia di ascendenza marxista. Non meno chiaramente era condannata la concentrazione nelle mani di pochi del «potere economico» (Mater et magistra, 23). D’altra parte, ai fini di promuovere «il progresso sociale a beneficio di tutti i cittadini», «devono essere attivamente presenti i poteri pubblici», con una funzione di stimolo e di orientamento, secondo il «principio di sussidiarietà» (Mater et magistra, 40). La Chiesa, di fatto, approdava a posizione di stampo quasi socialista.
  4. La modernizzazione dei costumi
    In tutto l’Occidente, vari altri fattori, oltre alla già considerata perdita di prestigio dell’elemento militare, contribuivano, negli anni del secondo dopoguerra, a mettere in crisi la tradizionale immagine della figura maschile all’interno della società. Nel 1963, Alexander Mitscherlich, un sociologo tedesco di formazione medica, descriveva questa nuovo assetto della società nella sua opera Verso una società senza padre (Auf dem Weg zur vaterlosen Gesellschaft). Il titolo stesso del libro è quanto di più indicativo. L’uomo di oggi è ormai definitivamente uomo-massa. Questo, svincolato dai legami parentali, tende ad accantonare la figura del padre. Mitscherlich inquadra questa sua tesi nella teoria psicoanalitica freudiana e proclama la fine della rivalità edipica tra figli e padre. Il vecchio conflitto freudiano ora cede il posto all’invidia fraterna: una tesi, quest’ultima, che sembra applicabile a questi ultimi decenni forse ancor più che agli anni il cui scriveva il sociologo tedesco. In realtà, Kerouac lo aveva anticipato di un decennio.
    Dal canto loro, le donne erano sempre più impegnate all’interno dei processi produttivi e avevano ormai accesso a tutti i percorsi di studio, anche a quelli in passato riservati, per lo più, agli individui di sesso maschile. Ne risultava sconvolto il tradizionale assetto della famiglia. Ma nei primi anni Sessanta era accaduto qualcosa di rivoluzionario, che era destinato a sconvolgere in via definitiva gli assetti precedenti. Da un passato immemorabile, la destinazione principale – o in molti casi unica – della donna era quella riproduttiva. L’invenzione della pillola anticoncezionale ribaltò questo stato di fatto, che per molti corrispondeva a un ordine naturale. La possibilità di una contraccezione farmacologica era stata teorizzata in Austria già nel 1931. Ma evidentemente, i tempi non erano ancora maturi (l’Italia in quegli anni assegnava premi alle famiglie numerose). La sperimentazione della “pillola” ebbe luogo in America nel 1958. Già nel 1961 i nuovi mezzi contraccettivi furono commercializzati in Europa. Da allora, le donne dei paesi occidentali – o almeno molte di esse – poterono decidere liberamente se accettare oppure no il tradizionale ruolo riproduttivo. Come si può ben comprendere, la novità ebbe effetti dirompenti. Basti pensare, tra l’altro, all’influenza che l’idea di una donna non per forza destinata alla maternità ebbe sui canoni estetici.
    Perfino L’Italia – che era, allora assi più che oggi, legata alla tradizione cattolica –finì con l’essere profondamente coinvolta in queste trasformazioni di carattere sociale, malgrado le non poche resistenze. Anche in questo caso, un confronto tra il “prima” e il “dopo” può essere istruttivo.
    Già dagli anni Cinquanta il nostro paese si era avviato alla modernizzazione per quanto riguardava l’economia e l’espansione dei consumi individuali: l’automobile, il frigorifero e la televisione erano gli emblemi di questo rinnovamento. Ma gli ordinamenti giuridici, le varie istituzioni e, in particolare, la scuola restavano decisamente arretrati. È sufficiente, a tal riguardo, rileggere alcuni articoli allora dell’allora vigente Codice penale.
    Per esempio, l’Art 553. Art. 553 Incitamento a pratiche contro la procreazione. Chiunque pubblicamente [c.p. 266] incita a pratiche contro la procreazione o fa propaganda a favore di esse è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a lire quattrocentomila [c.p.p. 31]. Tali pene si applicano congiuntamente se il fatto è commesso a scopo di lucro. In applicazione di questa norma, i profilattici erano pubblicizzati solo sui giornali sportivi, peraltro in forma molto ambigua e come presidi medici atti a prevenire le malattie veneree. Questo articolo fu abrogato solo nel 1978, dall’art. 22, Legge 22 maggio 1978, n. 194, sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza. Ma ancora più istruttiva può essere la rilettura dell’Art. 559. Art. 559 Adulterio. La moglie adultera è punita con la reclusione fino a un anno. Con la stessa pena è punito il correo dell’adultera. La pena è della reclusione fino a due anni nel caso di relazione adulterina. Il delitto è punibile a querela del marito. La Corte costituzionale, con sentenza 16-19 dicembre 1968, n. 126 (Gazz. Uff. 28 dicembre 1968, n. 329), dichiarò l’illegittimità costituzionale del primo e del secondo comma dell’art. 559. Più tardi, con la sentenza del 27 novembre-3 dicembre 1969, n. 147 (Gazz. Uff. 10 dicembre 1969, n. 311), la Corte medesima dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 559, comma terzo. Anche l’Italia, sotto la spinta innovativa dei fermenti introdotti da qualche decennio con la democrazia, cominciava a percorrere la via del rinnovamento. Un cambiamento epocale per quel che riguarda il costume era stato prodotto dalla Legge n. 75 del 20 febbraio 1958, comunemente nota come Legge Merlin. La norma aboliva le case chiuse e istituiva il reato di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione. La Francia aveva adottato un simile provvedimento nel 1946. La legge non ebbe l’effetto di sopprimere né la prostituzione né il suo sfruttamento. Tuttavia essa riuscì in larga misura ad abbattere quello che da tempi immemorabili costituiva, accanto alla caserma, uno dei luoghi in cui per l’italiano di sesso maschile si celebrava il rituale del passaggio alla vita adulta. Tuttavia, a parte questi segni di incipiente modernizzazione, l’Italia del secondo dopoguerra era dominata da un clima di censura e repressione, che spesso assumeva un carattere apertamente violento. Il ministro dell’interno Mario Scelba aveva istituto, già negli anni Quaranta, la cosiddetta Celere, un corpo di polizia costituito da reparti specializzati nella repressione delle manifestazioni di piazza. La Celere era alla diretta dipendenza del Ministro e, nel corso di alcuni decenni, si era resa responsabile di oltre cento morti e migliaia di feriti. Frequente era il ricorso, ad opera di tali reparti, dei “caroselli”, effettuati nelle piazze con le camionette. In taluni casi, caricavano i manifestanti i carabinieri a cavallo. La repressione aveva toccato il culmine nell’estate del 1960, sotto il governo democristiano di Fernando Tambroni; nella città di Reggio Emilia il 7 luglio 1960 furono uccisi da polizia e carabinieri cinque manifestanti. I fatti furono narrati da una celebre canzone politica di Fausto Amodei, Morti di Reggio Emilia. Caduto il governo Tambroni e apertasi la via, con il governo presieduto da Amintore Fanfani, alla collaborazione di Centro-sinistra (DC, PRI, PSDI, PSI), per qualche anno non si registrarono più per le strade italiane vittime della repressione poliziesca.
    Dal canto suo il Centro-sinistra, prima ancora di diventare coalizione organica con la presenza al governo del PSI di Pietro Nenni, aveva attuato importanti riforme. In particolare, per quanto riguarda la scuola, nel 1962 era stata istituita dal governo Fanfani, con l’abolizione dell’Avviamento professionale, la Scuola media unificata. La liberalizzazione dell’accesso all’Università fu stabilita solo nel 1969, con la Legge Codignola. Già negli anni Sessanta era, dunque, in atto quel fenomeno noto come scolarizzazione di massa. Tutto questo suscitava nuovi problemi di non facile soluzione. Le università, che fino ad allora erano state fortemente elitarie, non erano in grado di assicurare spazi e attività didattiche idonei per la nuova marea di studenti.
  5. Il nuovo universo giovanile
    Il principale veicolo grazie a cui si diffondeva la nuova cultura imperniata sul rifiuto del mondo adulto e sul pacifismo era, ancor più che il nuovo modo di vestire e di acconciarsi anticonformista, la canzone. Con la musica si diffuse nell’universo giovanile italiano la cultura della beat generation. Si presti attenzione alle parole di Dio è morto, del 1965, con parole e musica di Francesco Guccini, e si faccia un confronto con L’urlo, di Allen Ginsberg, da cui Guccini aveva tratto ispirazione.
    Ho visto
    la gente della mia generazione andare via
    lungo le strade che non portano mai a niente
    cercare il sogno che conduce alla pazzia
    nella ricerca di qualcosa che non trovano nel mondo
    che hanno già
    lungo le notti che dal vino sono bagnate
    dentro alle stanze da pastiglie trasformate
    dentro alle nuvole di fumo, nel mondo fatto di città,
    essere contro od ingoiare la nostra stanca civiltà
    e un Dio che è morto
    ai bordi delle strade Dio è morto
    nelle auto prese a rate Dio è morto
    nei miti dell’estate Dio è morto.

    “Dio” è, qui, tutto ciò che ci ha tramandato il passato: i miti, gli pseudo-valori, le ipocrisie (in tutto questo c’era, ovviamente, molto Nietzsche). Dio è morto «nei campi di sterminio», vittima della violenza umana; ma muore anche «nelle auto prese a rate», catturato negli ingranaggi del consumismo. Eppure, di nuovo, appare sullo sfondo della storia il paradigma della resurrezione, anche se in chiave non più trascendente, ma intramondana: «Nel mondo che faremo Dio è risorto». Probabilmente, da questa canzone (puntualmente censurata dalla RAI, ma diffusa dalla Radio Vaticana), i giovani italiani appresero più filosofia che in un intero corso di liceo. Ma era chiara altresì la profonda differenza rispetto ai beat e alla loro individuale e apolitica evasione: si trattava, ora, di ricostruire il mondo e di realizzare Dio nella storia, sulla base delle idee e dell’azione collettiva.
    Fu l’opposizione alla guerra del Vietnam il principale denominatore comune che unificò la cultura musicale dei giovani. L’impegno e la militanza potevano ora essere congiunti al divertimento e al piacere della socializzazione. Questo accadeva con le canzoni pacifiste. Una delle prime ad avere notorietà fu Blowin in the wind, di Bob Dylan, composta nel 1962 e fatta conoscere nel 1963. Questo genere musicale, spesso di buon livello artistico, prese vita anche l’Italia. C’era un ragazzo, di Mauro Lusini, resa celebre da Gianni Morandi, fu pubblicata nel 1966. Auschwitz (La canzone del bambino nel vento) di Francesco Guccini, era del 1964. La guerra di Piero, di Fabrizio De André, è del 1968. La differenza tra la nuova canzone politicamente impegnata e il vecchio mondo della musica leggera, per tradizione alquanto insulsa, è manifesta, e sta a testimoniare il divario, ormai profondo, tra le generazioni.
    Altre canzoni avevano un carattere più apertamente protestatario, ed erano diffuse, più che nei mass media, nei movimenti giovanili e nei loro cortei. In questo filone, si devono ricordare Ivan Della Mea e Paolo Pietrangeli. Di quest’ultimo è nota soprattutto Contessa, del 1966, a lui suggerita, secondo quanto egli stesso narra, da una cinica conversazione che egli aveva udito presso un elegante caffè romano. Era peraltro esplicito nel testo della canzone l’invito alla lotta violenta. “Che roba contessa, all’industria di Aldo han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti; volevano avere i salari aumentati, gridavano, pensi, di esser sfruttati. E quando è arrivata la polizia quei pazzi straccioni han gridato più forte, di sangue han sporcato il cortile e le porte, chissà quanto tempo ci vorrà per pulire…”. Compagni, dai campi e dalle officine prendete la falce, portate il martello, scendete giù in piazza, picchiate con quello, scendete giù in piazza, affossate il sistema.
    Tuttavia, l’impatto più decisivo sulla trasformazione del costume fu esercitato, più che dalle canzoni politiche, da quelle che circolavano presso il grande pubblico. Grazie alla musica, l’universo giovanile trovò una propria inconfondibile identità esistenziale e divenne un tutto organicamente connesso, come una sorta di sistema nervoso collettivo, pronto a diffondere nella maniera più veloce le sollecitazioni ricevute e a rispondere prontamente, in maniera unitaria, agli stimoli. Nel 1967, Qui e là, resa celebre da Patty Pravo, faceva rivivere al pubblico giovanile italiano lo spirito di On the road. Non occorre commentare questi tre versi, scelti a titolo di esempio.
    Casa qui oh io non ho
    ma cento case ho.
    Oggi qui, domani dove sarò?
    Qui e là, io amo la libertà
    e nessuno me la toglierà mai
  6. Esplode la rivolta
    Gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta avevano ormai preparato un contesto antropologico e culturale per molti aspetti nuovo rispetto a quello dei decenni precedenti. C’era, però, un ulteriore elemento che risaliva alla conclusione della Seconda guerra mondiale. Si era ancora nel pieno della Guerra fredda. Il comunismo aveva palesato il suo carattere oppressivo già nel 1956, con l’invasione dell’Ungheria. Ma le nuove esperienze, in particolare quella cinese e quella “terzomondista” di Guevara, lasciavano intravedere la possibilità di un comunismo diverso da quello sovietico. Per di più, le potenze occidentali apparivano “alle corde” per effetto delle guerre coloniali, regolarmente da esse perdute o in procinto di essere perdute. Gli stessi USA apparivano in difficoltà nel Vietnam, che essi avevano ereditato dall’Indocina persa negli anni Cinquanta dalla Francia. C’è da dire, infine, che, in particolare nei paesi di tradizione cattolica, esercitava ancora in quegli anni un notevole impatto la visione religiosa, che, certo, aveva ormai abbandonato il vecchio cerimonialismo preconciliare, ma che ancora era in grado di alimentare attese messianiche o perfino apocalittiche riguardo a una prossima palingenesi storica del genere umano.
    Questo quadro di riferimento accreditava una convinzione che allora era profondamente radicata e che è andata perduta sul finire del Novecento: la fiducia nella possibilità di scegliere il “sistema” economico-sociale, tra un ventaglio di alternative ugualmente possibili. In altri termini, l’uomo appariva libero di pilotare a suo piacere il corso della storia: capitalismo? Comunismo sovietico? Socialismo in una versione nuova e inedita? Si noti bene che oggi non si presenta come plausibile alcuna alternativa all’economia di mercato, cioè al capitalismo, che tutt’al più può essere corretto.
    Poste queste premesse, illustreremo ora alcune vicende del Sessantotto in Italia, ovviamente senza alcuna pretesa di sistematicità. Il metodo che useremo sarà quello dei “flash”, ossia rapide inquadrature volte a mettere in luce aspetti significativi.
    Fu l’università il terreno in cui la protesta giovanile toccò il suo apice e trovò un suo assetto organizzativo. A Trento l’Istituto superiore di Scienze sociali era stato fondato, nel 1962, per iniziativa per presidente della Provincia, il democristiano Bruno Kessler, ed era aggregato alla Facoltà di Scienze politiche. L’obiettivo era quello di formare i tecnici e i manager (preferibilmente democristiani) di una nuova classe dirigente, sia per il settore pubblico sia per quello privato. In quegli anni l’istituto ambiva a essere riconosciuto come corso di laurea in Sociologia.
    Lo studio della sociologia, anche grazie all’alone di novità di cui era circondato, conquistò molti giovani, che affluirono a Trento dalle più lontane regioni. Essi si trovarono isolati all’interno della città, anche per la difficoltà a trovare alloggi. La sera e i giorni festivi gli studenti erano soliti fermare i passanti con richieste del tipo «Vorremmo aprire un dialogo con lei, spiegarle le nostre ragioni», ma ben pochi degli interpellati rispondevano (Nanni Balestrini, Primo Moroni, L’orda d’oro, Feltrinelli, Milano 1988, 2017, p. 206).
    Poiché Trento era sulla via della Germania, presso gli studenti di Sociologia si fecero strada senza difficoltà le idee ispiratrici degli universitari di Berlino, già in fermento. A Trento si ebbe, tra gennaio e febbraio del 1966, la prima apparizione importante del movimento studentesco in Italia. Gli studenti organizzarono controlezioni e controcorsi. L’idea di fondo era quella della “università critica”, un’idea promossa anche da studiosi quali Francesco Alberoni. Nel 1967, a Trento, il Movimento produsse un lungo Manifesto per una Università negativa, il cui principale autore deve essere probabilmente riconosciuto in Renato Curcio, in seguito esponente di punta delle Brigate rosse (Marco Boato, Il lungo ’68, Morcelliana, Brescia 2018, p. 206). Secondo Il Manifesto, «l’università è uno strumento di classe», funzionale al sistema capitalistico. Essa, nell’intento della classe dominante, è chiamata a produrre quell’«apparato tecnologico», destinato a «domare le forze sociali centrifughe» che si oppongono al potere. In apparenza, l’apparato tecnologico si sostituisce all’antico «Terrore»; ma quest’ultimo puntualmente riemerge nella sua forma violenta non appena qualcuno mostra di volersi sottrarre al nuovo ordine.
    Le conseguenze che il Manifesto traeva da questa analisi – chiaramente ispirata alla Scuola di Francoforte – erano di portata assai vasta. L’attacco veniva esteso, infatti, alla presunta neutralità della scienza, cara a positivisti e neopositivisti. L’analisi scientifica, dunque, non poteva essere asettica, ma doveva essere congiunta al progetto di creare una società nuova. In questa prospettiva venivano teorizzati lo studente-out e il professionista-out, i quali, anziché essere integrati nel sistema, dovevano svolgere nei confronti di esso un ruolo negativo e critico. È evidente come la contestazione nei confronti dell’esistente assumesse il carattere di un’ideologia totalizzante, di un rifiuto totale dell’esistente, nell’attesa “religiosa” e “messianica” di un mondo nuovo prossimo a incarnarsi: un mondo i cui contorni restavano, tuttavia, piuttosto vaghi. Merita, comunque, di essere sottolineato il fatto che il movimento trentino – in gran parte di ascendenza cattolica – era espressione immediata degli studenti, e non era diretto da forze politiche esterne. In esso militarono esponenti ben noti anche negli anni successivi: Mauro Rostagno, Alexander Langer, Marco Boato. Renato Curcio, Margherita Cagol. Langer fu tra i fondatori del movimento ecologista. Rostagno – “il Che di Trento” –, che allora era marxista libertario e non violento, fu forse la figura più rilevante e più nobile del movimento trentino. Il suo percorso politico-culturale e religioso fu lungo e complesso; era stato tra i fondatori di Lotta continua; fu assassinato a Valderice, in Sicilia, nel 1988, ove aveva fondato una comunità per il recupero dei tossicodipendenti.
    La protesta dilagò nelle università italiane. Si distinsero Torino, Milano, Roma, Pisa. A Milano la protesta ebbe origine dall’Università cattolica ed espresse un leader di rilevanza nazionale quale Mario Capanna. Diventarono sempre più frequenti gli scontri urbani e – magari in risposta all’intervento della polizia – il movimento assunse un carattere apertamente violento. Nel complesso, la società tendeva a isolare il movimento giovanile di protesta; questo, dal canto suo, nella sua attesa apocalittica della novità epocale, manifestava un paralizzante vuoto progettuale e non riusciva a proporre soluzioni concretamente praticabili
    In questo condizione di isolamento, l’unica via che restava aperta al movimento studentesco fu quella di confluire nel più vasto movimento operaio internazionale di ispirazione marxista-leninista, anche se su posizioni collocate a sinistra rispetto al PCI. Quindi, alla base di tutto, disciplina gerarchica e violenza rivoluzionaria. Questa svolta divenne evidente con il movimento universitario di Torino, ove l’occupazione di Palazzo Campana, sede centrale delle facoltà umanistiche, ebbe inizio nel novembre 1967. A Torino ormai risultava chiaro a tutti i militanti che la controparte era costituita dalle forze economiche. Il movimento solidarizzò con gli operai della FIAT; in un illusorio sogno rivoluzionario gli stabilimenti FIAT vennero ribattezzati “Officine Putilov”. Guido Viale, uno dei principali leader del Sessantotto torinese e poi tra i fondatori di Lotta continua, nel suo scritto Contro l’università, pubblicato sul n. 33 della rivista “Quaderni piacentini”, affermò che occorreva lottare, non “dentro”, ma “contro” l’università. Egli stesso esprimeva aperta diffidenza verso i tradizionali principi della liberaldemocrazia: non ci poteva essere libertà di scelta in una società basata sull’oppressione.
    Ma Viale, che era un teorico lucido e ben consapevole, metteva altresì in risalto una visione dei rapporti umani che era nuova ed era, verosimilmente, assai diffusa. Queste erano le sue parole:
    L’università [tende] a instillare negli studenti uno spirito di subordinazione rispetto al potere» […e] a cancellare, nella struttura psichica e mentale di ciascuno di essi, la dimensione collettiva delle esigenze personali e la capacità di avere dei rapporti con il prossimo che non siano puramente di carattere competitivo […]
    Dunque, alla base di tutto c’è un vissuto individuale; ma questo, affrancato dai rapporti di subordinazione propri del sistema, si riversa nella dimensione del collettivo. Se poi si passa alle concrete rivendicazioni avanzate dagli occupanti, queste erano, più o meno, le stesse in tutte le università: non più lezioni cattedratiche, ma ricerca collettiva; abolizione degli esami; assemblee che decidono i programmi.
    Su un aspetto particolare del “lungo Sessantotto” italiano (utilizziamo il titolo del libro di Marco Boato) occorre dedicare una certa attenzione. A parte Capanna e a parte Milano, la partecipazione cattolica, o di matrice cattolica, al movimento di contestazione fu comunque massiccia e contribuì a conferire ad esso il carattere di “religione mondana”. Il Cattolicesimo, allora ancora molto presente all’interno della società italiana, trasmetteva al Sessantotto un orizzonte di valori per molti aspetti alternativo rispetto a quello del benessere consumistico proprio del capitalismo avanzato. L’ascendenza culturale ebraica, presente – anche se per lo più latente – nel cristianesimo così come nel marxismo, faceva balenare agli occhi di molti il miraggio di una terra promessa, a cui si sarebbe approdati in una pienezza dei tempi ormai a portata di mano. Ne aveva origine quella caratteristica visione apocalittica – oggi non facilmente comprensibile né da molti condivisa –, secondo cui era ormai prossimo un ribaltamento della storia, con il definitivo approdo a una civitas Dei, ossia a una società senza più egoismo né sfruttamento.
    Per tornare a Capanna, egli guidò uno scontro con la polizia il 25 marzo 1968 nella piazza antistante la Cattolica. Ma la prima battaglia urbana – e forse la più nota – era stata quella combattuta e Roma il 1 marzo 1968, a Valle Giulia, sede della Facoltà di Architettura. Il centro propulsore da cui erano partite le manifestazioni era stata la Facoltà di Lettere. Il 28 febbraio il consiglio studentesco di facoltà di Lettere aveva deciso di svolgere esami nella facoltà occupata. Il rettore si oppose e ordinò lo sgombero. Ne ebbero inizio i disordini, che, di lì a poco, culminarono nello scontro violento. Dopo di questo, Il ministro Luigi Gui dispose la riapertura e le trattative con il movimento. In quelle settimane si mosse contro il movimento studentesco anche la destra neofascista: il 16 marzo Giorgio Almirante, esponente di punta del Movimento sociale, guidò una spedizione punitiva contro gli studenti della facoltà di Lettere. I “ragazzi” di Almirante erano armati di bastoni, spranghe e pugni di ferro.
    Ma l’ondata rivoluzionaria non si limitò alle università. Gran parte dei licei furono teatro di contestazioni. Talora le reazioni furono scomposte. Basti ricordare un liceo scientifico romano, il Plinio seniore, in cui venivano espulsi gli studenti con in capelli lunghi. Eppure le richieste dei liceali, salvo alcuni evidenti eccessi, non erano smodate, secondo quanto apparve sul quotidiano “La stampa” nel novembre 1968: diritto di assemblea, interrogazioni programmate, voti di profitto non influenzati da questioni di ordine disciplinare. Un importante successo fu colto il 17 dicembre, quando il ministro Sullo si presentò all’improvviso al Liceo Mamiani di Roma, assumendo l’impegno ad avviare un processo di riforma.
    Il rifiuto della gerarchia e dell’ordine imposto si manifestò anche al di fuori della scuola. Negli anni Sessanta la Chiesa cattolica viveva la travagliata stagione postconciliare. Nel luglio 1968 Paolo VI aveva raggelato le speranza dei progressisti, condannando nell’enciclica Humane vitae l’uso dei mezzi contraccettivi, nonostante il parere contrario di una commissione di vescovi e teologi. Questa scelta, da molti all’interno del mondo cattolico giudicata inopportuna, rafforzò il movimento di contestazione della gerarchia. Fu così che nel mese di settembre si giunse all’occupazione, sia pure per poche ore, del duomo di Parma, con tanto di scritta “cattedrale occupata”.
    In un particolare settore della vita sociale la forma mentis del Sessantotto lasciò una traccia indelebile: la psichiatria. Nel marzo 1968 uscì L’istituzione negata, a cura di Franco Basaglia, direttore dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia. Si trattava di una negazione dialettica in senso hegeliano, in quanto la “negazione” dell’istituzione manicomiale doveva cancellare ciò che nega l’umanità dei malati di mente per riaffermarne la piena umanità. Occorreva comprendere il malato mentale semplicemente come uomo, senza anticipare nei suoi confronti alcun giudizio. In tal modo veniva ufficialmente avviata la depsichiatrizzazione della malattia mentale, che avrebbe poi condotto, con la Legge 180 del 1978 (dieci anni dopo), alla chiusura dei manicomi, i quali dovevano essere sostituiti da altre forma di assistenza. In un sentire comune piuttosto diffuso tendeva a divenire incerto il confine tra normalità e malattia, così come in generale veniva sostenuto dall’antipsichiatria. La malattia mentale appariva una risposta deviante alle contraddizioni insite nella società; in un certo senso il “malato” era più normale dei “sani”. A parte gli eccessi, questo orientamento mostra come la cultura del Sessantotto dell’Europa occidentale avesse un’ispirazione chiaramente libertaria, anche in considerazione dell’uso repressivo che della psichiatria veniva fatto – all’opposto − in Unione sovietica.
  7. Dicembre 1968: il triste epilogo
    Nel corso dell’anno in molte città italiane le battaglie urbane erano diventate una consuetudine quasi giornaliera, tra lo scandalo dei benpensanti, cioè di una “maggioranza silenziosa” sempre più avversa al movimento. Nella piovosa serata del 7 dicembre 1968, all’inaugurazione della stagione operistica al teatro Alla Scala, Capanna guidò il movimento di protesta e, con il megafono, chiese ai poliziotti, a suo parere sottopagati e maltrattati dal governo, di non difendere «queste quattro puttane ingioiellate». L’ostentata esibizione del lusso era avvertita come un’offesa nei confronti degli operai altrettanto malpagati o in vari casi licenziati.
    L’epilogo di quell’anno rovente fu tragico. Poco settimane dopo i fatti di Milano, presso il locale La bussola, di Viareggio, il 31 dicembre 1968, un atto di violenza chiuse l’anno della protesta studentesca. Davanti all’esclusivo locale della Versilia affluirono alcune centinaia di studenti, facenti capo al gruppo pisano ‘Il potere operaio’. L’intento era quello di offrire ai clienti della Bussola «un piccolo simbolico omaggio ortofrutticolo»; a quanto pare,da parte dei manifestanti non erano state portate armi né strumenti contundenti. Dopo alcune cariche, dalle forze dell’ordine partirono colpi di arma da fuoco; un ragazzo, Soriano Ceccanti, fu gravemente ferito e ne riportò una lesione permanente. Da parte dei tutori dell’ordine era stata scelta la linea dura. Ministro dell’Interno era il democristiano di destra Franco Restivo; capo del governo di centrosinistra il democristiano Mariano Rumor. Davvero il tragico episodio con cui si concluse il 1968 italiano è illuminante. È chiaro come le forze moderate e conservatrici avessero scelto la linea dello scontro, sebbene un esponente di primo piano della DC, Aldo Moro, qualche mese prima avesse mostrato, dopo alcune incertezze, disponibilità al dialogo. Il clima era già quello dei successivi anni Settanta. L’anno successivo, il 1969, passò alla storia per le agitazioni sindacali e dagli scioperi paralizzanti. Poi ebbero inizio i lunghi anni delle stragi (oltre un decennio), della “strategia della tensione” e del terrorismo. Il 12 dicembre 1969 esplose la bomba a piazza Fontana nel centro di Milano. Dilagò la violenza neofascista, forse protetta da alcuni apparati dei servizi segreti italiani e stranieri. Alcune frange di ciò che rimaneva del movimento di protesta scelsero la lotta armata.
  8. Un primo bilancio. Sessantotto, Contro-sessantotto, Conversione ecologica
    Il lungo processo storico noto come Sessantotto segnò, per molti aspetti, il culmine del Novecento. La caduta del comunismo sovietico, venti anni dopo, fu, di fatto, l’epilogo di
    un secolo ormai al tramonto. Nel suo significato complessivo, il Sessantotto rappresentò il trionfo dell’illusione, tipicamente legata al secolo passato, di riplasmare il mondo nella sua totalità sulla base di un’ideologia. Il movimento sessantottesco non riuscì nel suo scopo, che era quello di ribaltare il vecchio mondo e di costruire una nuova società. Esso, tuttavia, rivoluzionò il costume e lo trasformò in maniera permanente. In questo consiste la sua storicità: dopo, nulla fu più come prima.
    Come già più volte detto, il movimento giovanile che caratterizzò il Sessantotto non si esaurì nel corso di un solo anno, ma occupò un periodo ben più lungo: dalla metà degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta. In Italia perdurò assai più che altrove, a confronto, in particolare, con la Francia, o con gli Stati uniti. Il Sessantotto nacque con una forte ispirazione libertaria: fu la dissacrazione a tutto campo dell’autorità e la rivendicazione della libertà contro ogni forma di potere presente all’interno della società, della scuola, della famiglia, della religione, del padre, del professore, del poliziotto, del prete, del papa, di Dio. In questo senso, esso aveva le sue origini nel decennio precedente, nella protesta generazionale in chiave prevalentemente esistenziale che fu tipica di quegli anni.
    In Francia, il 20 maggio, il settimanale “Le nouvel observateur” pubblicò un’intervista del filosofo e scrittore Jean-Paul Sartre al leader del movimento studentesco, il tedesco Daniel Cohn-Bendit. Sartre coglieva nel movimento il manifestarsi di una «spontaneità “incontrollabile”». A proposito di questa egli osservò che l’azione politica del movimento «mette l’immaginazione al potere»: «È quello che chiamerei l’estensione del campo del possibile» (Roberto Raja, Il 68 giorno per giorno, Edizioni Clichy, Firenze 2017, p. 147). La cultura filosofica di Sartre non era quella del marxismo, bensì dell’esistenzialismo, il quale poneva al centro dell’esistenza umana la categoria della possibilità. Da questa categoria traeva alimento l’immaginazione degli studenti ribelli all’ordine costituito. È peraltro da notare che il pensiero comunista, fedele agli insegnamenti di Lenin aveva sempre condannato la spontaneità e sostenuto il primato dell’organizzazione. Del resto, anche in Germania, il movimento, nelle parole del suo leader Rudi Dutschke, si era nettamente espresso a favore della democrazia diretta, senza l’istituto della delega di poteri ai rappresentanti.
    La direzione che stava percorrendo il “socialismo reale” di stampo sovietico era del tutto opposta a quella degli ideali libertari. A raggelare le illusioni di coloro che ancora speravano in un “socialismo dal volto umano”, alle ore 23 del 20 agosto 1968, le truppe del patto di Varsavia, forti di 250.000 uomini e 2.000 carri armati, invadono la Cecoslovacchia. I vertici del Pci esprimono la loro «riprovazione», pur confermando il rapporto «fraterno» con il comunismo sovietico; i comunisti cinesi furono più drastici, e parlarono di «crimine abominevole». Comunque sia, non è difficile vedere nei carri armati a Praga – dodici anni prima erano apparsi a Budapest – la sconfitta del comunismo internazionale.
    In Italia, più che in altri paesi, l’ispirazione libertaria ben presto si affievolì. I leader del movimento volentieri si atteggiavano a “piccoli Lenin”, imponendo ai loro gruppi una rigida disciplina gerarchica, con tanto di “servizi d’ordine” pronti a usare, quando fosse giudicato necessario, la violenza. Per le vie di Milano gli studenti di Capanna inneggiavano a «Stalin, Berija, Ghepeù» (la GPU era stata la famigerata polizia segreta di Stalin). Nel suo insieme, il movimento divenne fortemente politicizzato e fu catturato negli ingranaggi della guerra fredda. Ormai era completamente perso lo spirito autonomistico degli studenti di Trento. Di fatto, questo esito snaturò gli ideali da cui il movimento aveva preso le mosse e lo condusse, in taluni casi, a degenerare nella lotta armata.
    Alla resta dei conti il movimento di ribellione fu sconfitto in tutto l’Occidente da quello che esso stesso aveva già individuato come nemico storico: la tecnocrazia e la nuova economia, vale a dire la cosiddetta Terza rivoluzione industriale, con il generale richiamo all’ordine che questa comportava. Il Sessantotto aveva individuato la tecnocrazia come il principale avversario, così come prontamente riconobbe il sociologo francese Alain Touraine. È una significativa coincidenza il fatto che sempre nel 1968, 18 luglio, per iniziativa di Robert Noyce, già inventore del circuito integrato, venisse fondata la Intel corporation (Integrated Electronics Corporation) (Raja, op. cit., p. 201). La rivoluzione digitale era alle porte.
    In realtà la sconfitta fu solo parziale, in quanto talune trasformazione nella sfera privata e nel costume apparvero ben presto irreversibili. Ma sicuramente volgeva ormai al tramonto il proposito di una trasformazione globale della società. Il Contro-sessantotto si identificò storicamente con gli anni Ottanta: Thatcher, Reagan, Giovanni Paolo II, Berlusconi.
    Qualcuno si chiederà perché le cose siano andate così. Da parte delle generazioni adulte non si volle dialogare con i movimenti giovanili. I partiti – in testa il Pci del segretario Luigi Longo – erano pronti a intercettare nuovi consensi elettorali da parte dei settori giovanili più facilmente inquadrabili. Ma l’establishment politico di sinistra rispondeva per lo più con i ferri vecchi arrugginiti del più tradizionale marxismo-leninismo. Si potrebbero citare molte prese di posizione sugli organi ufficiali del Pci. Per esempio, Pier Paolo Pasolini condannò apertamente gli studenti all’indomani di Valle Giulia in una poesia pubblicata da “L’espresso”, con il titolo “Cari studenti vi odio”. Il titolo in precedenza dato dall’autore a quelli che lui stesso avrebbe poi definito «brutti versi» era “Il Pci ai giovani”. Il valore letterario di questa lunga requisitoria in versi era scarso, o nullo. Nondimeno, l’intervento di Pasolini suscita attenzione per il frasario leninista ampiamente sfoderato nelle accuse indirizzate a mo’ di ingiurie: «piccolo-borghesi», «riformisti», «teppismo». Colpisce il fatto che, da parte sua, non ci fosse il tentativo di capire il movimento studentesco e che facesse volentieri uso di un repertorio di anatemi desunti da una stanca tradizione comunista, che forse, già in quello scorcio degli anni Sessanta, sarebbe stato opportuno ripensare. Egli stesso, tuttavia, qualche mese dopo, verso la fine di settembre, in un intervento sul settimanale “Tempo”, mutò opinione e attribuì al movimento studentesco un carattere autenticamente rivoluzionario, paragonabile a quello della Resistenza.
    Dal canto suo, il movimento stesso era ormai invischiato in una insuperabile e paralizzante contraddizione. Non erano mancate interpretazioni acute del particolare momento storico. Ma la violenza era da molti considerata come la forma più naturale di lotta, o comunque non era condannata. Conviene rammentare che, in quegli anni, l’Unione
    Sovietica di Brežnev era ancora molto forte e temibile, anche sul piano militare: il che accresceva i timori nei confronti della ribellione studentesca. Tutto sommato, il movimento giovanile di protesta finì, dunque, con l’essere irretito nei meccanismi della guerra fredda. Ma soprattutto l’incapacità progettuale, alla lunga, ne compromise la credibilità culturale. Si chiedevano a gran voce gli esami di gruppo, con un unico portavoce e con il voto in comune, ma le proposte di una nuova e credibile organizzazione della scuola e della società non presero forma. La prospettiva rivoluzionaria, nella sua ricerca di un’alternativa totale al sistema, risultò perdente, ma non si volle – o non si poté – intraprendere la via, (non certo facile) di un serio e concreto riformismo, magari anche radicale. La trasformazione restò confinato alla vita privata o andò a beneficio dei vari “reduci” e “nostalgici” che il movimento lasciò sulla via e che furono pronti a reclamare posizioni di prestigio in nome di un passato rivoluzionario. Ma generare una élite non significa compiere una rivoluzione.
    Anche altre prospettive e nuove consapevolezze erano state, d’altra parte, aperte e consegnate alle generazioni seguenti. Era venuta alla ribalta, in particolare, la problematica ecologica. Anche in questo caso l’anno 1968 ha carattere epocale. Il 7 aprile nasce il club di Roma, a seguito di un convegno promosso da Aurelio Peccei, già partigiano, amministratore delegato dell’Olivetti. Il convegno avanza una tesi che dovrà alimentare, in forma crescente, il dibattito di molti decenni successivi e dei nostri giorni: la crescita economica non può continuare indefinitamente, ma ci sono limiti alla crescita, Limits to growth, come si intitolerà un libro del 1972. Questa consapevolezza era già matura in alcuni settori del movimento giovanile italiano. Alexander Langer, protagonista del movimento, militante di Lotta continua, pacifista e pioniere dell’ecologismo a livello europeo, volle sostituire al vecchio motto olimpico:
    citius, altius, fortius
    le parole:
    lentius, profundius, suavius.

    Queste suggerivano l’idea di una conversione ecologica e di un generale ripensamento – da attuare nei tempi lunghi – dei modi di pensare, di produrre e di usare le tecnologie.