Le considerazioni del DS Luigi Neri sul libro di Piero Zama "Le ore del mio pensiero"

Le considerazioni del DS Luigi Neri sul libro di Piero Zama “Le ore del mio pensiero”

Alcuni mesi fa è stato ripubblicato, presso la casa editrice Fratelli Lega, il libro di Piero Zama Le ore del mio pensiero, apparso per la prima volta nel 1919 e, successivamente, nel 1932. Si tratta di appunti raccolti dall’autore al fronte, negli anni della Prima guerra mondiale, e da lui stesso poco tempo dopo sviluppati in forma di quattro meditazioni. La nuova edizione è stata curata da Giuseppe Fagnocchi, ed è stata presentata a un gruppo di studenti del Liceo Torricelli-Ballardini il 17 dicembre 2018.

Personalmente, restai piuttosto perplesso quando il libro fu presentato agli studenti del Liceo. Temevo che venissero riproposti il vecchio bellicismo e, soprattutto, la celebrazione retorica della Grande guerra, in occasione del centenario della sua conclusione. Mi domandavo se fossero stati attivati gli opportuni filtri critici. Non trovavo, infatti, nella presentazione di Fagnocchi, cenni al fascismo (censura?) e non mi sembravano considerate questioni importanti, quali il nazionalismo e il modernismo cattolico ‒ in cui Zama si trovò coinvolto ‒ o il rapporto con Alfredo Oriani. Pensavo che fosse doveroso rimandare, per esempio, alla giusta e meritoria dissacrazione compiuta dal nostro grande cinema. Ricordavo anche una canzone anarchica, che circolava tra le truppe, O Gorizia, tu sei maledetta; qualche soldato incline all’ammutinamento osava intonarla, con il rischio di finire dinanzi al plotone di esecuzione. In ogni caso, già nel dicembre scorso, non avevo dubbi che la ripubblicazione del libro fosse opera meritoria dal punto vista storiografico, non solo perché Zama fu, poco dopo la stesura del libro, leader dello squadrismo fascista faentino, ma ancor di più perché queste pagine illustrano il clima culturale che era stato alimentato dal nazionalismo bellicistico e che, di lì a poco, sarebbe sfociato nella violenza fascista.

Ragionando ora a mente fredda, comprendo che i giovani liceali appaiono immuni dai rischi connessi ai bagni di retorica, e che nessuno tra loro vaneggia – almeno credo – di campagne militari (magari per rivendicare, in nome dei ‘confini naturali’, Capodistria, Nizza, Lugano o Bellinzona). Comunque sia, mi colpiscono pur sempre, in questo libro, alcuni aspetti che io reputo fortemente negativi. Mi riferisco, in primo luogo, alla scrittura retorica e infiorettata. Anche il pensiero filosofico è – così a me sembra – debole, e non va oltre qualche volo ‘poetico’, di gusto adolescenziale. Per esempio, a un certo punto sembra che Zama si accinga a spiegarci che cos’è l’anima. Ed ecco la risposta al quesito (certo non dei più facili) (p. 69):

L’anima: che cos’è? È forse il profumo invisibile ed indefinito che circonda le corolle dei fiori, o simile altra cosa che aulisce nel nostro essere.

Ma ancor di più colpisce – o ferisce – l’immagine della donna. Per esempio la «servotta» (p. 95); la giovane porta un nastro azzurro «sui capelli grossi e biondastri»; forse, i lembi del nastro «sono quelli, soltanto quelli, le ali del suo pensiero»: a quanto pare, al personale di rango servile è interdetto qualsivoglia pensiero profondo. Ma non va meglio neppure per le donne di studio: «Una dottoressa! Lo rivela il suo volto bruttino e chiuso. È quasi senza forme femminili ed appena decentemente vestita dentro gli abiti ricchi» (pp. 95-6). Lo sguardo indagatore di Zama coglie un nesso ‘rivelatore’ tra il volto ‘bruttino’ e il titolo di studio. Converrebbe ricordare che Maria Montessori si era laureata in Medicina (una delle prime donne in Italia) nell’allora già lontano 1896.

Prima dei passi ora citati, nel corso della seconda meditazione, Zama aveva palesato la sua concezione della donna e della sua destinazione. Riporto per esteso il passo che segue, poiché questo può essere indicativo di una sua visione molto più generale (pp. 78-9).

Io amo la creatura, senza limite, proprio quella che si abbandona sulle coltri bianche e culla il sogno della mia vita. Appunto perché la sua carne ha talvolta il freddo della morte, e perché il risveglio da quel sogno non è gioia ma pianto, più fortemente mi avvingo a lei, e la porto meco, e mi perdo con lei nel mistero immenso, seguendo il declivio della morte […]

A parte un certo sentore di erotismo dannunziano a tinte macabre, queste considerazioni sono tutt’altro che banali. La morte – e solo la morte – è l’esperienza estrema capace di dischiudere all’uomo una realtà superiore.

Questa ricerca di una realtà trascendente – dunque un’esperienza nuova del divino – potrebbe essere una chiave di lettura del testo di Zama. Non solo, infatti, la guerra – con l’ordine gerarchico insito nella vita militare – gli si presentava come l’occasione per riaffermare quelle gerarchie che i movimenti politici tra Ottocento e primo Novecento avevano tentato di ribaltare. Ma nella generale dissacrazione che la scienza e la tecnologia avevano ormai operato, la guerra era altresì l’occasione per un recupero a tutto campo della sacralità. A questo riguardo, Zama era tutt’altro che ingenuo. Egli vedeva – giustamente, dal suo punto di vista – nella scienza e nella cultura illuministica e positivistica il nemico da combattere in questo suo proposito di risacralizzazione della società, all’insegna della virtù militare, e all’ombra delle croci. Non mancano, nel suo testo, le invettive contro la scienza (i fisiologi, gli igienisti, gli psichiatri…), secondo un luogo comune allora già consolidato e caratteristico dello spiritualismo antilluministico novecentesco.

Il punto fondamentale è precisamente questo. La vecchia religiosità cristiano-cattolica si era ormai dissolta. Zama stesso, qualche anno prima, era stato sospettato di modernismo, l’eresia condannata da Pio X nel 1907. Forse, da parte delle autorità religiose, lo zelo persecutorio era stato eccessivo, e non sempre giustificato. Ma di fatto, la nuova istanza religiosa, anziché ripercorrere le vie della teologia e della devozione, prendeva vita in un misticismo assai poco tradizionale, dominato dall’attrazione per la morte e incline a cercare un Dio – quello cristiano? – sulle rovine fumanti della storia umana. Le esperienze forti della violenza e della morte erano ormai la via di accesso unica e privilegiata al divino. Era il costo di un recupero del sacro e del soprannaturale in antitesi alla naturalizzazione dell’uomo operata dalla scienza. Dalla guerra, Zama coglieva una lezione di carattere in primo luogo religioso. Essa, tra l’altro, gli aveva permesso di trascendere l’individuo e di scoprire in tutta la sua pienezza il significato del noi, un noi da intendere come unità coesa, che trascende le volontà individuali dei singoli: «Noi (oh dolce parola che ci unisce!)» (p. 119). Bastava soltanto che a questo ‘noi’ si aggiungesse la figura del capo carismatico, colui che incarnava ed esprimeva lo spirito della comunità, ed era il fascismo dispiegato.

Per quanto mi riguarda, ho qualche dubbio sul fatto che davvero – come vorrebbe il curatore – si possa cogliere dalle pagine di Le ore del mio pensiero qualche nota, o qualche semplice accenno, di ispirazione cristiana in direzione di un ‘universale umano’, che accomunerebbe tutti gli uomini nella condivisione della fatale sventura. Fatico a credere che ci possa essere alcuna aspirazione ad una universalità da parte di chi – come Zama – non spendeva una parola di critica nei confronti delle varie atrocità commesse anche dai ‘nostri’: il cinismo degli alti comandi, i plotoni di esecuzione, le decimazioni di interi reparti, i soldati colpiti alle spalle dal cosiddetto ‘fuoco amico’…È chiaro, d’altra parte, che la pace in cui credeva Zama non è quella che possono faticosamente costruire gli uomini, ma quella che, dopo la morte, può concedere un dio trascendente: un’‘orrenda pace dei sepolcri’ ‒ diremmo noi ‒, che fa seguito alla carneficina.

Non si può negare il fatto che la riflessione di Zama scaturisca da un complesso travaglio interiore, del quale le sue pagine recano ampia testimonianza. E neppure si può dire che le posizioni da lui espresse rappresentino un episodio marginale nella storia della nostra cultura. Varie correnti avevano reagito contro l’Europa illuministica, democratica e socialista in nome di una presunta nuova spiritualità, all’insegna dell’impulso vitale e dei furori mistici che si liberarono in tutta la loro forza nei campi di battaglia e nelle trincee. Ma poiché non tutti avevano colto questo insegnamento dalla guerra, si può osservare come la coscienza europea fosse profondamente lacerata.  In quel 1919 il fascismo era ben oltre lo stato di incubazione. Dal libro di Zama si può intendere come la componente religiosa e misticheggiante fosse un elemento costitutivo fondamentale di quell’esperienza storica, che forse non è stata tuttora compresa a fondo in tutti i suoi aspetti.

Luigi Neri